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Santarcangelo 40

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Da venerdì 9 fino a domenica 18 luglio, si svolge la quarantesima edizione del Festival Santarcangelo. Riportiamo un paio di articoli usciti nel primo numero di Nero su Bianco, una fanzine cartacea che viene distribuita nei giorni di Santarcangelo 40 e che è il risultato in quattro puntate del laboratorio organizzato dal collettivo Altre Velocità: un gruppo di redattori e di osservatori critici si concentra sulle domande pubbliche che gli spettacoli, le proiezioni, le istallazioni e tutte le altre occasioni d’incontro pongono allo spettatore. Qui sotto l’editoriale di benvenuto e l’intervista agli organizzatori del festival. Le illustrazioni invece sono di Federico Mazzoleni.

Una piccola banda si è radunata per il festival.
Il tam tam ci è esploso tra le mani, innescato dal desiderio di Santarcangelo 40, dal suo labirintico e ipnotico programma, non sintetizzabile secondo gli usuali criteri: proliferante, eccessivo, quasi violento. Un festival non riducibile a terreni già noti e classificati, ma percorribili in molteplici direzioni e secondo infinite traiettorie, che chiede di evitare gli orientamenti delle preferenze immediate e di esporsi al caso e al caso di un disegno in continua espansione, spinto dall’entusiasmo dei tanti gruppi qui raccolti. Per questo siamo così tanti, tra critici, scrittori, musicisti e disegnatori: per disperdersi e ritrovarci in questo festival, per far confliggere le prospettive e le competenze, per mescolarci con quanti hanno risposto al richiamo di questa edizione, un’urgenza color rosso fuoco che urla la necessità per tutti di essere presenti, testimoni radicalmente rivolti e coinvolti nel progetto con ogni fibra del proprio essere.
A questo grido vogliamo aggiungere le voci della nostra redazione espansa. Ogni giorno nelle aule della piccola scuola media in cui quest’anno risiede l’Osservatorio Critico, i pensieri si allacceranno alle parole, le parole ai disegni, per tracciare congiunzioni e polverizzare parametri. Ci occuperemo delle incursioni dal vivo della nostra emittente, Radio Gun Gun, della realizzazione di Nero su Bianco, la fanzine che avete tra le mani, dodici pagine che in quattro uscite attraverseranno i due weekend del festival. Partiamo dalla passione, attraverseremo lo spazio pubblico e la realtà-finzione del teatro e dell’arte, provando a concludere attorno all’individuo e alla comunità. Cureremo anche uno spazio sul web (santarcangelofestival.com e altrevelocita.it), che quotidianamente ospiterà altre visioni attraverso la fotografia e i video.
La natura multidirezionale dell’edizione 2010 ci invita a una riflessione sul nostro posizionamento, sulle domande necessarie alla critica per raccontare un’esperienza come questa, perché non sia cronaca né divagazione, ma incursione e proiezione poetica negli spazi che riusciamo a immaginare. Useremo parole, interventi grafici, disegni e illustrazioni realizzati da alcuni studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Bologna e della Scuola del Libro di Urbino.
Raccontare per noi significherà lasciare delle tracce, anche ambivalenti, anche riottose, fenditure che incideranno il festival secondo le linee che ci sembrano più urgenti, oggi, per parlare dell’arte e per snidarne i conflitti. Occorre davvero provare a immaginare e realizzare azioni e non più solo descrizioni. Parlare solo di teatro è insufficiente. Non parlare abbastanza di teatro, almeno per noi, è comportarsi da turisti della cultura. Per questo siamo tanti, per provare a portare alla luce le domande che investono la realtà, per essere in grado di puntare all’essenziale, per condividere questioni, invitare riflessioni, sollecitare discussioni: perché ciò che persuade, nella minoranza di un festival, sia davvero in grado di impedire la stasi del buono, del noto, della resa.
Altre Velocità


Abbiamo chiesto alla direzione di Santarcangelo 40, Enrico Casagrande, Rodolfo Sacchettini e Daniela Nicolò di esplicitare le tensioni contenute in “passione” e “insostenibilità”: due parole che scorrono sotto la pelle di questa edizione e la connettono alla visione più ampia del progetto triennale del festival.

 

Passione e Utopia
Enrico Casagrande Un festival come questo, che è anche un pensiero, uno stare insieme, non può esistere senza passione. Credo che sia la possibilità di non vedere dei limiti, di attraversare il territorio dell’impossibile. Senza passione non potremmo fare l’impossibile che cerchiamo. La nostra è una passione per l’utopia, anche oggi. In un momento in cui vediamo nero e siamo accerchiati dalla negatività, questa riesce in qualche modo a pervadere il nostro agire, a giustificare il nostro fare di meno. La negatività spesso diventa una scusa a cui ricorrere. Come Motus abbiamo sempre attraversato il festival da artisti: costruirlo è stato per noi allargare l’idea di compagnia, fino alla sorpresa di avere di fronte cento persone con uno stesso tipo di sentimento, di orizzontalità. Arriveremo a comporre questo festival in settecentonovanta: una piccola città, un borgo, tante teste pensanti che si radunano intorno a Santarcangelo. La volontà è di trascinare il festival, la collettività e gli individui in una dimensione di impossibile; ci siamo presi un rischio: perdere il controllo. Alcuni progetti saranno delle sorprese anche per noi.

Daniela Nicolò: La cosa che più mi incuriosisce e su cui ho maggiore attesa sono le reti sotterranee che si andranno a creare tra i vari momenti spettacolari: un livello profondo che si manifesterà solo nel vivo del festival.

Rodolfo Sacchettini: È come se ci fossimo chiesti cosa era possibile mettere in bilico con il “potere”. Il potere è anche abitudine, consuetudine, chiusura, stupidità, luoghi comuni, stereotipi, affaticamento e noia. La reazione è stata lavorare alla costruzione di un contesto, mossi principalmente da passione e necessità. C’è anche della lotta in tutto questo e ci vuole un po’ di utopia per andare avanti; poche illusioni, tanta ostinazione.
Abbiamo lavorato sulle passioni singolari e plurali, con l’obiettivo di “fare comunità”, guadando agli individui e ai gruppi senza un “Dio” a cui fare riferimento. Questo festival vive della moltiplicazione e del vedere nelle cose che accadono il generarsi di possibilità, la ricchezza delle strade che possono essere percorse. Ed è la bellezza il più delle volte a scardinare porte e aprire sentieri là dove tutto sembrava chiuso e impercorribile.

Fine
EC: Chi è arrivato dopo la generazione-anni-novanta- ha ricominciato da capo: è avvenuto un azzeramento che voleva dire nuovo linguaggio, nuovo rapporto con le istituzioni, nuovo modo di fare teatro. Per noi Motus non è stato così. Ma se avessimo tagliato con ciò che c’era prima, se ci fossimo separati da tutto il resto, avremmo perso i fili. Anche le contraddizioni sono estremamente importanti per una comunità. Non dico che l’oggi e il domani debbano essere uguali al passato; ma il passaggio deve essere un ripartire da dove si è, anche se la stratificazione è satura o marcia. Non credo nell’azzeramento, nel volere per forza chiudere, e solo dopo capire cosa sta succedendo.

NC: Queste considerazioni riecheggiano in alcuni spettacoli presenti al festival. La reazione al nero è stata il rosso, una scelta molto evidente, una risposta nettissima legata alla nostra attuale condizione di artisti. Nel nostro percorso abbiamo spesso deciso di aprire ad altre forme, cambiare linguaggio, andare per altre strade, ma assolutamente esserci. L’idea di reazione è basilare, altrimenti si fa il gioco del potere. Come chi in questo momento, per il fatto che non ci sono soldi, sceglie di non fare o fare di meno.

EC: Siamo solo all’inizio di un regime che taglierà per prime le frangi pesanti. Allora dovremmo reinventarci come i polacchi, costretti a portare il teatro nelle chiese, gli unici luoghi dove i russi non potevano fermarli…

Esplosione non Implosione
EC: È importante evitare il dibattito tout-court come è avvenuto negli anni Settanta, quando si è perso di vista l’oggetto “arte” in favore di quello meramente politico, altrimenti si va incontro al pericolo di un’implosione, di un’involuzione del linguaggio stesso delle arti. Un’utopia sta anche nel fatto che il Bello, il metaforico e il continuamente-trasformato debbano proseguire a essere riferimenti e punti di vista per mettersi in relazione con la realtà.

DN: In questo festival c’è stata l’urgenza di coinvolgere artisti che si rapportassero al reale senza farne una traduzione diretta, narrativa. Su questo abbiamo investito, prendendoci il lusso di qualche rischio.

EC: Questa pratica, eversiva rispetto a una consuetudine da festival, è stata per noi come innescare una bomba. La delusione sarebbe se di questa potenziale esplosione rimanesse soltanto l’innesco, con la possibilità che durante il festival noi continuassimo a chiederci “quando esplode veramente?”.
Abbiamo scelto di non riempire incondizionatamente le piazze, di non cercare il consenso. La nostra costruzione di ESC è proiettata a sovvertire le regole dell’apparire, non sarà invasiva a livello di moltiplicazione, ma lo sarà a livello di tensioni. Se accade veramente lo vediamo poi. Io non ho paura di questo, anzi, ho paura che tutto questo non accada, che alla fine saremo così civili tra noi, così ben educati, che le intenzioni rimangano frasi scritte invece di accadere in modo dirompente. Non dimentichiamo che l’Italia è l’unica nazione europea che non ha mai avuto una rivoluzione: non l’abbiamo nel DNA. Non vorrei che ci ritrovassimo l’ultimo giorno di festival ad attendere ancora una scossa che ci attraversi. Io ne ho bisogno. Altrimenti mi sentirei molto scarico, per quanto gli spettacoli possano essere belli.

Singolari e Plurali
EC: Credo che la direzione del festival da parte di gruppi teatrali abbia permesso in qualche modo di sbloccare la verticalità: l’organizzazione gerarchica difficilmente avrebbe permesso che si mescolassero le carte, invece per noi questo è accaduto in modo naturale fino al 2009.

RS: In questo lavoro di tante teste c’è la consapevolezza che uno più uno non fa due, ma un altro numero, che può essere tre ma ancora di più. Quando in un’equipe nascono competizione, conflitto o invidia, è la pluralità a rimetterci. Noi abbiamo ricercato equilibri in continuo divenire, sempre diversi, ma tra individui che guardassero a un pensiero collettivo.


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